Pietro Rancan

Titolare, insieme al fratello Dario, e Direttore Commerciale Rancangelo

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“Design e innovazione vivono insieme come mai prima d’ora”.
Un motto che già dice molto dell’approccio al prezioso mondo del gioiello di questa azienda veneta fondata il 25 settembre del 1960 da Angelo Rancan.
Una realtà tutta italiana in cui computer e macchinari hi-tech convivono con l’esperienza di artigiani in grado di forgiare i dettagli unici di opere di oreficeria e pelletteria che sanno di lusso e qualità estrema.
È Pietro Rancan, co-proprietario dell’azienda di famiglia insieme al fratello Dario, a guidarci attraverso storia, tradizione e innovazione di Rancangelo.

Come è stato ereditare l’azienda di famiglia. Ne sei felice o avevi altri sogni?

“Molto naturale, anche perché sono nato e cresciuto in azienda. Ho iniziato a lavorare in fabbrica a 14 anni, imparando tutte le varie lavorazioni. Mio padre, notando il mio estro creativo, mi assegnò alla diamantatura, dove anche la fantasia gioca un ruolo importante. Non c’è mai stato spazio per altri sogni, e sono contento così: la mia attività è sempre stata al centro della mia vita”.

Gli inizi da così giovane sono stati difficili?

“Quando ho iniziato a occuparmi anche dell’ambito commerciale mi svegliavo molto presto al mattino e, zaino in spalla, prendevo il treno per andare a far visita ai clienti, concentrati soprattutto a Milano. Il sabato mattina, a volte, dopo solo poche ore di sonno (in fin dei conti ero molto giovane e non rinunciavo certo a divertirmi), salivo in macchina e raggiungevo gli appennini per consegnare la merce destinata al resto del mercato italiano. Tanti ricordi, ma anche tanti sacrifici”.

C’è una figura di riferimento a cui ti ispiri nel tuo lavoro?

“Senza dubbio mio padre che a me e a mio fratello era solito ripetere: ‘Impara l’arte e mettila da parte’. Ha rappresentato un grande esempio di generosità, impegno, intraprendenza e genialità. Gli devo moltissimo. Il suo lascito lo riassumerei con una frase di Goethe: ‘Qualsiasi cosa tu possa fare o sogni di poter fare, dalle inizio. L’ardimento ha in sé genialità, potenza e magia’.
È proprio il genio e la capacità di reinventarsi che hanno permesso alla nostra azienda di superare tutte le difficoltà e le crisi economiche mondiali che si sono succedute negli anni”.

Come si struttura il tuo processo creativo? Quale l’obbiettivo a cui tendi?

“Mi affido molto all’immaginazione. E dormo poco. Di notte mi piace elaborare le mie intuizioni, pensare a come realizzarle, e quasi sempre, di giorno, mi rendo conto di aver intrapreso la strada giusta.
Da sempre il mio scopo è realizzare gioielli unici nel loro genere. È per questo che nella mia carriera ho depositato così tanti brevetti (26 internazionali).
A partire dall’Omega duo, un gioiello reversibile, prodotto tramite l’unione di 2 diverse colorazioni del metallo e con diverse finiture, che permettono di avere due gioielli in uno. Nato nel 1999 è stato modello di punta e identificativo dell’azienda per molti anni. Quando lo presentammo per la prima volta in fiera a Vicenza si creò una fila lunghissima di clienti fuori dallo stand e raccogliemmo 12 quintali di ordinativi. Rappresentava una completa novità per il mercato. Questo è quello a cui miro quando creo un nuovo gioiello, perché è proprio il riuscire a concretizzare una mia fantasia a regalarmi le migliori soddisfazioni”.

Altri gioielli iconici delle vostre collezioni?

“Dopo aver realizzato delle linee di occhiali per importanti brand, come Gianfranco Ferrè e Porsche Design, ho voluto lasciare un mio personalissimo segno anche in quel segmento di mercato. Così abbiamo realizzato la nostra proposta di occhiali d’oro contraddistinta da un altro brevetto depositato nel 2003: un’asta rivestita d’oro, realizzata in un materiale resistente ma con memoria di forma, quindi flessibile. Da questa innovazione ne è anche scaturita una nuova linea di gioielli: fili leggeri, indeformabili, che offrono la possibilità di realizzare forme inconsuete che non necessitano di chiusure.
Un altro esempio è la linea Princess della quale il Masterpiece è composto da 5 mila pezzi montati a mano per cui è necessaria un’intera settimana di lavoro”.

Quali le maggiori difficoltà che incontrate sul mercato?

“È un punto che si lega al precedente: l’impossibilità di difendere la proprietà intellettuale delle proprie creazioni, per lungaggini burocratiche e investimenti che bisognerebbe affrontare.
Viviamo in un mondo in cui le idee originali vengono cannibalizzate da altri”.

Come è strutturata la vostra offerta di prodotti?

“Abbiamo tre marchi di proprietà. Rancangelo si occupa di oreficeria tradizionale, in cui l’oro è protagonista e le lavorazioni sono quasi esclusivamente artigianali.
Per Dario & Peter sviluppiamo gioielli che uniscono ai metalli preziosi quarzi e pietre naturali, che compriamo direttamente in miniera e tagliamo internamente, così da raggiungere creatività e unicità di design.
L’ultima linea abbina, invece, dettagli gioiello alla pelle – del resto lavoriamo in un distretto famoso non solo per il gioiello, ma anche per i prestigiosi pellami – dando vita a collezioni di borse molto esclusive”.

Dove avviene la produzione?

“Produciamo tutto in Italia. La forza del nostro made in Italy è nella nostra abilità di realizzare l’inedito, il nuovo. Di dare vita a oggetti belli che prima non esistevano.
A cui si aggiunge la nostra attitudine a inventare nuovi macchinari in grado di sviluppare le nostre idee originali, oltre alla capacità di far bene le cose che pensiamo e la passione per la cura dei dettagli che rendono unico ogni gioiello. Il che implica anche una buona organizzazione all’interno dell’azienda. Questo insieme di fattori può essere scopiazzato, ma è molto difficile da replicare nella sua peculiarità. Questo è il Made in Italy”.

Ma ha ancora senso produrre in Italia?

“Sì, produrre in Italia presenta diversi vantaggi: la tradizione, la manodopera preparata, anche se in via d’estinzione, e il riconoscimento che all’estero ci è ancora garantito. Certo, per un imprenditore italiano è molto difficile competere con Paesi comunque evoluti dal punto di vista del know how. Ciò che ci penalizza maggiormente è il costo del lavoro”.

Tu, imprenditore italiano, hai dovuto faticare per costruire e mantenere il tuo giro d'affari?

“Ho faticato e anche rischiato. Se cento anni fa l’oreficeria aveva casa in Germania, gradualmente le produzioni si sono trasferite in Italia. Ma 30 anni fa il business era più semplice, si avevano come interlocutori pochi grandi grossisti per l’Italia e per l’estero. Dopodiché si sono diffuse le fiere di settore e i clienti hanno voluto interagire direttamente con i produttori. Da lì ho iniziato a viaggiare (ancora oggi sto lontano da casa 6 mesi l’anno), ho imparato l’inglese, e ho rischiato anche parecchio. In certi Paesi prendevi il taxi, ma non davi mai l’indirizzo corretto per paura che capissero cosa avevi in valigia, oppure non lasciavi la stanza d’albergo nemmeno per cenare temendo di non ritrovare più il campionario. E in aereo non si chiudeva occhio”.

Come organizzate la distribuzione dei vostri articoli?

“Fino ad ora in modo tradizionale, partecipando a fiere di settore e affidandoci alla rete di agenti. È imminente, però, il lancio del nostro e-commerce. Un canale di vendita in cui credo molto”.

Se dico Sostenibilità?

“È un tema cruciale. Oggi più che mai non puoi prescindere da tale tematica. Noi, già 20 anni fa, abbiamo iniziato ad occuparci del problema, stando molto attenti, per esempio, a valutare che le nostre materie prime provenissero da miniere dove non viene sfruttato il lavoro minorile. Oggi abbiamo anche iniziato un percorso che ci porterà a certificare la nostra integrità e sostenibilità”.

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